In occasione dell’evento Educare al Futuro e al digitale, organizzato da SCAI in collaborazione con Money.it al Forum Theatre di Roma, il nostro CMO Michele Franzese ha intervistato Dimitri Stagnitto, founder di Money.it e autore del libro “Internet dopo internet. Costruiamo la rete di domani o sarà la rete a ri-costruire noi”.
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Hai scritto un libro dal titolo provocatorio. Ti senti “tradito” da internet?
Probabilmente sì, mi sento tradito dallo spirito originale di internet. Anche se sono alla soglia dei 40 anni, ho vissuto più di 20 anni su internet e l’ho visto nascere. Sono uno di quei ragazzi nati a metà degli anni ’80 che nel ’95 stavano usando Netscape Navigator, e all’epoca eravamo in pochi. Internet mi ha subito affascinato, ho deciso che sarebbe stato un pezzo importante della mia vita, e così è stato.
Ho vissuto con quel senso di esclusione che può avere un ragazzino che vede i più grandi fare cose nuove e di frontiera. Ho osservato i primi anni dell’era dot com e del primo internet italiano, iniziando a creare i miei primi siti. Ne ho un ricordo nostalgico perché, nel corso di vent’anni, internet è diventato qualcosa che assomiglia sempre di più ai vecchi media. Questo è il punto della questione di “retroguardia”: mi dispiace, ma era meglio all’inizio. Internet è un protocollo che, nel processo di maturazione e di rilevanza economica, è stato omologato a concetti e dinamiche proprie dell’economia di mercato, ma questo tradisce il suo spirito originario.
C’è un certo ritorno, in questo senso, attraverso tutta la cultura legata a Bitcoin e alla blockchain, dove si cerca di recuperare il concetto di peer-to-peer, di utente evoluto, consapevole e responsabile delle proprie azioni all’interno di un ecosistema. Tuttavia, per la maggioranza delle persone, il Bitcoin sembra servire solo per fare soldi speculando in maniera più o meno ignorante e, per certi versi, ignobile.
I contenuti dell’informazione digitale sono sempre più brevi: è perché i fruitori hanno una soglia di attenzione sempre più bassa?
Ho una visione abbastanza tragica del mondo digitale. Ho accesso all’analytics di un sito web con milioni di utenti e so cosa esce quotidianamente su un sito come Money.it, con molti contenuti di grande qualità, a mio parere. Tuttavia, i contenuti più letti di solito non sono quelli di qualità. Perché? Perché c’è un algoritmo che espone maggiormente i contenuti progettati per avere maggiore visibilità. E perché l’algoritmo fa questo? Nella sua logica di autoapprendimento, sembra capire che la gente voglia quei contenuti, creando una sorta di profezia che si autoavvera e un circolo vizioso che si autoalimenta.
Questo porta, per certi versi, all’abbrutimento. Se lasciamo che l’algoritmo ci guidi e ci intrattenga toccando sempre le corde giuste per tenerci attaccati, finiremo come è finita la televisione: partita con la RAI educativa di un certo spessore e finita con la TV trash, persino sul servizio pubblico. In vent’anni, vedo che internet ha fatto lo stesso percorso.
La tragedia per me è che io partecipo a questo processo. Il mio libro è stato scritto come una chiamata alle armi, o comunque un grido nel deserto, per vedere se c’è una risposta da parte di qualcuno su questo tema e su questa sensibilità. Mi chiedo se ci sia un gruppo di persone che voglia, in qualche modo, affrontare il problema e cercare di ricostruire internet per recuperare ciò che abbiamo perduto, per certi versi.
Perché la TV riesce a mantenere l’interesse con programmi lunghi, mentre su internet prevalgono i contenuti brevi?
I contenuti brevi non sono solo prevalenti, ma sembrano essere la “droga” dei giovani. I contenuti lunghi, invece, risuonano ancora con un pubblico più anziano che magari ha la televisione come sottofondo. Questo solleva una interessante questione anche riguardo all’Auditel, che misura il tempo di accensione dei canali su un numero limitato di televisori, senza sapere se qualcuno sta effettivamente guardando. Quindi, tutte le stime numeriche sulla televisione sono affette da un grado significativo di incertezza.
I contenuti lunghi sulla televisione spesso sono frazionati in segmenti più piccoli, con un contenuto sempre più diluito. Sono più dei contenitori che dei veri approfondimenti. È un tema importante: la tecnologia televisiva, creata da noi, ha avuto un impatto significativo sulla società nel secolo scorso, e il digitale, che è parte integrante della mia vita e non intendo demonizzare, sta ora svolgendo un ruolo analogo, se non più potente.
Sono preoccupato perché il digitale è un’arma potente e sfuggente. Ha dinamiche proprie che amplificano aspetti di noi che potrebbero essere difettosi o non necessariamente quelli che vorremmo mostrare al mondo. Però poi il nostro sistema limbico ci porta spesso a fare esattamente questo. In questo processo, si perde un valore importante. Costruire contenuti di profondità e di valore effettivo richiede comunque un investimento economico significativo. Se metto i panni dell’editore, vedo che perdere un pubblico interessato a questo tipo di contenuti, o incapace di riconoscerne il valore, è davvero un grande problema.
Ti rendi conto che la strada più facile è seguire il flusso, come ha fatto la RAI per competere con Mediaset. Ma dove ti porta questo approccio? Alla fine, porta solo a un appiattimento che non funzionerà nemmeno a lungo termine.
Qual è la strada giusta per il mondo dell’informazione, che tenga conto delle nuove generazioni?
Questo è un tema importante. Hai menzionato Google, il broadcaster dominante che offre servizi come la posta e la ricerca, nonché gestisce gran parte delle informazioni online. Molti siti di notizie dipendono da Google Discover come principale fonte di traffico, visibile direttamente nelle pagine del browser quando navighiamo, sia su Android con Chrome che su iPhone con Chrome, come nel mio caso. Siamo costantemente immersi nell’ecosistema di Google e, in un certo senso, alimentiamo quel flusso di notizie, dedicando il 90% del nostro tempo all’intrattenimento e solo il 10% a qualcosa di costruttivo.
Le tecnologie che ci supportano tendono a interpretarci come interessati principalmente all’intrattenimento e a temi superficiali, piuttosto che a stimolarci su questioni più profonde e significative. Tuttavia, è vero che esistono contenuti importanti e strutturati, spesso ospitati su piattaforme come YouTube. Uno dei problemi dell’ecosistema internet è la sua forte concentrazione su pochi grandi attori, che operano a livello mondiale o semi-mondiale, con una significativa dominanza occidentale.
Qual è il tuo parere sui modelli di business a pagamento nel mondo dell’informazione? Vedi un modello sostenibile per garantire informazione di qualità in futuro?
L’idea teorica di un modello di business è interessante, ma la sua messa in pratica è estremamente complessa perché l’offerta di informazioni è vasta, prevalentemente gratuita e spesso orientata verso contenuti semplici e d’intrattenimento anziché quelli di qualità. Costruire valore e investire in contenuti profondi non funziona più nell’attuale sistema internet come funzionava dieci anni fa.
Un esempio è quello che fa Google oggi con i contenuti profondi: ti offre un riassunto direttamente nei risultati di ricerca, evitandoti la fatica di esplorare più pagine o cercare approfondimenti più nascosti. Questo semplifica notevolmente l’accesso alle informazioni, ma è anche problematico perché incoraggia una tendenza all’abbassamento del livello qualitativo. Internet tende a adattarsi al livello che gli utenti segnalano di volere, non necessariamente perché è ciò che desiderano, ma perché è ciò che ottengono.
Entriamo così in un circolo vizioso in cui diventiamo tutti utenti standardizzati, anziché sviluppare un sano spirito critico come facevamo davanti alla TV. Concettualmente, di fronte a Internet, stiamo diventando meno critici, forse anche peggio di quanto fossimo davanti alla TV. Ora, il dispositivo è costantemente con noi, sempre presente nei nostri pensieri, quasi come se avessimo una nuova versione di iOS imminente nel nostro cervello.
È vero che l’intelligenza artificiale sta sviluppando una capacità critica verso se stessa, forse più di quanto facciamo noi umani?
ChatGPT ha degli algoritmi ricorsivi di verifica, sebbene sia una forma di critica ingenua, poiché manca di uno spirito critico reale, per fortuna. Tuttavia, se noi utenti continuiamo a utilizzarla, finiremo per affidarci alla sua potenza di elaborazione.
Sotto questo aspetto ci tenevo, rispetto al macrotema che stiamo affrontando dell’educazione, a spezzare una lancia a favore di Benedetto Croce, per certi versi. Perché io credo che il problema di fondo, anche nell’educazione al digitale, sia la formazione delle persone fuori dal digitale. La tecnologia è evoluta in un ecosistema che sta diventando sempre più un’alternativa al mondo reale, quasi un metaverso. E regolamentarlo come se n’è discusso non è abbastanza, perché ci siamo già dentro troppo.
La norma, nel tentativo di regolare qualcosa, assume l’ambiente come dato di fatto. Noi abbiamo stabilito delle regole basate sulla natura, come le leggi della fisica e altri aspetti su cui non abbiamo controllo diretto, e ci siamo regolati di conseguenza. Ma questa nuova tecnologia è differente: l’abbiamo creata noi stessi. Abbiamo il potere totale persino di spegnerla, eppure sembra esistere autonomamente, incontrollabile. Come ci ha insegnato Kubrick con HAL 9000, questo comporta rischi significativi.
Non voglio essere catastrofista, ma il fatto è che stiamo creando le condizioni affinché possano verificarsi situazioni simili. Una piccola élite di tecnici sa come gestire e migliorare questa tecnologia, ma ciò potrebbe rendere la formazione degli individui meno efficace nel lungo termine. In altre parole, mentre la tecnologia migliora, noi potremmo involontariamente peggiorare noi stessi.
Io amo e sostengo lo sviluppo di questo ecosistema digitale, ma ritengo fondamentale mantenere un senso critico. Ho notato, osservando l’uso che ne fanno i miei figli, che potrebbero considerarlo come un dato di fatto, una realtà da accettare senza criticità. Questo mi preoccupa perché potrebbe diventare qualcosa da normare senza alcuna riflessione critica.
Un altro punto cruciale è il parallelo con la rivoluzione industriale, che ha ridotto il lavoro fisico umano, tradizionalmente delegato agli animali, portando ad una valorizzazione del lavoro intellettuale e alla nascita dei colletti bianchi nel XX secolo. Ma questo ha portato anche a nuovi problemi, privando l’uomo di alcune delle sue facoltà intellettuali e mettendolo a rischio di perdere persino il senso dell’esistenza, il che è profondamente preoccupante.
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